L’omicidio va virale

L’omicidio va virale

Steven Hicks, 19 anni, Steven Tuomi, 24 anni, Eddie Smith, 28 anni, Oliver Lacy, 23 anni, Matt Turner, 20 anni, Konerak Sinthasomphone, 14 anni, David Thomas, 23 anni, e Richard Guerrero, 21 anni.Conoscete queste persone? Sono solo alcune delle diciassette vittime del mostro di Milwaukee, Jeffrey Dahmer, che in questo periodo – dopo la nuova serie uscita su Netflix – sembra aver fatto ritorno dal regno dei morti. La serie è già presente tra le dieci più viste sulla piattaforma streaming, ha raggiunto quasi 300 milioni di ore visualizzate in sole due settimane. Jeffrey Dahmer nacque il 21 maggio del 1960 nel Wisconsin, per poi trasferirsi in Ohio all’età di sei anni: la lontananza del padre e la depressione della madre lo portarono a diventare introverso e apatico. Nel 1968 iniziò a collezionare resti di animali e a porre domande sulla disintegrazione delle ossa nella candeggina al padre, professore di chimica, che rispose orgoglioso, pensando di soddisfare una semplice curiosità scientifica e gli mostrò come conservare i resti degli animali. Secondo le dichiarazioni dello stesso Jeffrey, il suo interesse per la necrofilia iniziò a 14 anni, lo stesso periodo in cui cominciò ad essere preso di mira a scuola. Durante l’adolescenza comprese di essere omosessuale – scegliendo di non rivelarlo ai genitori – e iniziò a consumare ingenti quantità di alcol, ma nonostante questo veniva considerato uno tra gli studenti migliori della sua scuola. Nel 1978 tornò nella casa di famiglia in Ohio, che dopo il divorzio dei genitori nel ‘77 era stata abbandonata. A giugno dello stesso anno commise il suo primo omicidio, uccidendo l’autostoppista Steven Hicks, di soli 19 anni. Dopo aver colpito la vittima alla testa con un manubrio da palestra, Dahmer si masturbò sul suo corpo inerme, per poi smembrarlo. Alcuni pezzi del suo cadavere vennero disciolti nell’acido e le ossa frantumate, chiuse in delle buste e seppellite nel giardino. Fino al 1981 Dahmer fece parte dell’esercito, ma venne congedato per i suoi problemi di alcolismo. Ciononostante grazie al padre ottenne un lavoro in una banca del sangue, ma ben presto venne licenziato. Si trasferì allora dalla nonna a West Allis, dove coltivò le sue “passioni”, sciogliendo scoiattoli nell’acido e collezionando manichini in un armadio. Nel 1987 uccise Steven Tuomi, di cui stuprò il cadavere nella cantina di sua nonna e, come nel caso di Jamie Doxtator, i resti vennero buttati, non conservati. Dopo l’omicidio di Richard Guerrero, venne cacciato dal condominio dove viveva con la nonna a causa dei suoi comportamenti. Nello stesso mese fu condannato per violenza sessuale e rinchiuso in un ospedale psichiatrico per dieci mesi, per poi tornare nella casa della nonna dove uccise Anthony Sears, che venne drogato, strangolato, violentato e mutilato. Nel 1990, quando si trasferì a Milwaukee, portò con sé sia i genitali che la testa della precedente vittima. Dal 1990 al 1991 uccise dodici persone con lo stesso modus operandi: li adescava nei bar, per poi condurli nel suo appartamento, drogarli, ucciderli, violentare i loro cadaveri, smembrarli e mangiarli (parzialmente, lo stesso Dahmer riferisce di essersi cibato con gli organi genitali e il cuore di alcune sue vittime). Il 22 luglio 1991 Tracy Edwards, dopo esser stato condotto da Jeffrey in casa sua, venne drogato, ma accortosi delle foto di persone smembrate appese al muro e dell’odore acre che proveniva da un barile, con un pugno colpì l’aggressore e uscì dall’appartamento. Corse per strada e incontrò una pattuglia della polizia che andò a controllare l’appartamento di Dahmer, dove vennero trovati resti di cadaveri. Jeffrey Dahmer venne condannato il 13 luglio del 1992 a 957 anni di carcere nella prigione di Portage, dove fu poi ucciso da un altro detenuto il 28 novembre del 1994 con l’asta di un manubrio, proprio come aveva fatto anche lui con la sua prima vittima. Capolavoro di Ryan Murphy e Ian Brennan, la docu-serie Netflix si presenta come un ottimo resoconto sul caso del cannibale di Milwaukee. Dall’impeccabile interpretazione di Evan Peters agli straordinari effetti cinematografici, attraverso un senso di ansia ed inquietudine crescente, non sorprende la rapidità della sua fama. I creatori non volevano indurre empatia verso la figura di Dahmer, che comunque durante il corso della sua vita ha dovuto superare diversi ostacoli, ma purtroppo sembra essere successo proprio questo. Persiste il fascino del serial killer, che desta tanta maggiore curiosità quanto più è cruento nel dare espressione della propria personalità. A prova di questo ci sono le lettere che Dahmer ricevette in carcere da ammiratori e ammiratrici vari, che per continuare la corrispondenza gli inviarono persino dei soldi. Questa cosa era successa anche precedentemente con Richard Ramirez, Ted Bundy e molti altri, che attraverso il loro atteggiamento e l’aspetto fisico, catturarono l’attenzione di molti, la quale persiste ancora ai giorni nostri. Non aiutano, in questo fenomeno, i social. Dopo l’uscita della serie su Dahmer è andata virale la challenge delle polaroid, che consiste nel registrarsi mentre si guardano le foto originali scattate dal serial killer. Challenge che viola la dignità delle vittime, rendendole inumane. Suscita scalpore che non sia stata chiesta neanche l’autorizzazione alle famiglie delle 17 vittime, che si sono ritrovate l’assassino dei loro cari considerato come una “star”. Seppur lo stesso Evan Peters,in un’intervista rilasciata da Netflix, abbia dichiarato che l’intento della serie fosse proprio quello di far conoscere il caso e le conseguenze che ha causato alla società. Per quanto i serial killer, come anche Dahmer, possano aver sofferto, non si possono non biasimare azioni atroci come l’omicidio, o peggio lodarle. Perché dietro quelle azioni resta il dolore delle famiglie, una perdita incolmabile e persone che non raggiungeranno mai i loro sogni.

Alessia D’amaro

Marika Niro