Cannibalismo, analisi di una follia

Cannibalismo, analisi di una follia

Il cannibalismo, fenomeno ritenuto il frutto di una vera aberrazione della mente umana e praticato solo nel lontano passato, risulta universalmente diffuso anche ai nostri giorni. La sua origine è misteriosa, affonda le sue radici nell’antichità. Sin dal culto del cranio praticato nella Nuova Guinea, passando per le notizie tramandate da Erodoto e Marco Polo, per la tradizione popolare fatta di mangiatori di uomini (orchi, streghe, lupi mannari, eccetera) al cannibalismo simbolico dei primi anni di vita, l’antropofagia attraversa tutta la nostra cultura. Con la nascita della psicanalisi, Sigmund Freud riscriverà in chiave critica questo concetto. Anzitutto, identifica la bocca come zona erogena e mette in relazione l’alimentazione con il piacere sessuale, tanto da individuare nell’antropofagia una forma di disturbo alimentare. Freud, nel suo libro “Totem e Tabù”, scrisse che la pratica di mangiare la carne delle vittime umane corrisponde a un impulso di interiorizzazione e di appropriazione dell’altro. In realtà, spiega il filosofo austriaco, la crescita del bambino nei primi anni di vita è scandita da una serie di fasi. La prima è la fase orale. In questo periodo il bambino si nutre dal seno della madre e quindi la suzione diventa fonte di vita. Nel comportamento cannibalico l’appagamento di questo desiderio, rimasto latente, è esasperato e diventa l’unica modalità per instaurare un rapporto con l’altro. Da allora l’antropologia si intreccia sempre di più con la neurofisiologia e la psicoanalisi, nel tentativo di comprendere le varie forme del cannibalismo. Il cannibalismo sessuale, o fusionale, è una perversione che implica la sessualizzazione del consumo di carne umana. L’antropofago fonde i due concetti di vicinanza e nutrimento, sperimentando l’equivalente di intimità e vicinanza che nella persona “normale” si crea a livello simbolico attraverso il rapporto fisico. Spesso è una deviazione concettuale tipica di persone fortemente inadeguate dal punto di vista sessuale e aventi identità psicologicamente fragili, quindi incapaci di instaurare relazioni concrete. Tra tutti, il caso più noto resta quello di Jeffrey Dahmer, altrimenti noto come “il mostro di Milwaukee”. Invece, il cannibalismo spirituale, o energetico, non ha mai avuto un unico significato. Per gli antichi faraoni egizi era garanzia di un aldilà eterno, per i druidi era collegato la fertilità dei corpi. Per gli Aghori, una setta di asceti indù, era ed è un tentativo per superare tutte le dicotomie, per guardare attraverso la natura illusoria di tutte le categorie umane e raggiungere così il nirvana, diventando un tutt’uno con la realtà. Al giorno d’oggi vi è un’idea centrale di cannibalismo energetico. Ci si nutre dei defunti perché si spera di non diventare mai come loro. Procedendo tra le varie sfumature troviamo il cannibalismo epicureo, o nutrizionale. Il soggetto agisce per soddisfare un desiderio semplicemente nutritivo o culinario. Si tratta di un tipo di antropofagia abbastanza sporadico, più che altro riscontrato in soggetti antisociali, in cui l’infrazione del tabù è dettata dalla totale indifferenza verso l’altro. Riscontrabile indipendentemente dalle epoche e dalle società, è unico tipo di cannibalismo socialmente accettato: l’antropofagia per sopravvivenza. Emerge in situazioni estreme ed è dettata unicamente dall’istinto di autoconservazione. Un esempio è presente in una delle opere più importanti del romanticismo fiammeggiante francese, di Théodore Géricault, “La zattera della Medusa”. Riporta un fatto di cronaca che ebbe ampio eco in tutta Europa. Nel giugno del 1816 la fregata ammiraglia Medusa salpò dall’isola d’Aix, situata lungo la costa atlantica francese, alla testa di una flotta diretta a Saint-Louis, in Senegal, dove una colonia caduta in mano agli inglesi durante le Guerre Napoleoniche era stata appena restituita alla Francia. Della spedizione facevano parte militari e funzionari civili con i loro familiari e numerosi coloni. Le scialuppe furono sufficienti solo per una parte delle persone presenti sulla fregata, mentre le restanti dovettero costruire una zattera di fortuna con delle travi ritrovate in mare. Quindici furono le persone che riuscirono a salvarsi grazie ad una nave di passaggio. I superstiti hanno poi raccontato tutta la storia, riportata in varie riviste e giornali dell’epoca, descrivendo la desolazione e la devastazione di ciò che avevano passato. Nel loro resoconto sono presenti anche atti di antropofagia, avvenuti per sopravvivere alle loro condizioni. Erano soli tra le acque più deserte e senza cibo, privati delle loro certezze. Nulla restava da fare per restare in vita. L’ultima sfaccettatura è il cannibalismo aggressivo, la categoria maggiormente rappresentata tra i criminali cannibali. Indissolubilmente legato a pulsioni sadiche, esso è scaturito dal bisogno di esercitare potere o controllo e di sfogare la rabbia. Muove quindi dalla paura, dall’odio o dalla sete di vendetta, giungendo, attraverso il pasto, all’annientamento totale della vittima, alla sua completa dissoluzione materiale. In conclusione, l’antropofagia sembra un tema estremamente lontano, eppure è molto più comune di quanto si possa immaginare. È il risultato di molteplici fattori: condizioni avverse e carestie, traumi infantili o adolescenziali, seguito di malattie psichiche o condizioni psicopatologiche. Riguardo l’ultima argomentazione, vi è la concezione di Joel Norris. Americano studioso della psicologia criminale, crede che alla base del cannibalismo vi possano essere disfunzioni dell’ipotalamo, una regione del cervello che regola, in particolare, l’attività sessuale, il senso di fame e sazietà e l’umore. Il mangiare carne umana sarebbe, dunque, causato da uno squilibrio ormonale che determina l’incapacità del cervello di misurare le proprie emozioni e sfociare in azioni irrazionali.

Alessia D’Amaro