Si chiamava Sylvia

Si chiamava Sylvia

C’era una volta, in un paese dell’Indiana, una neonata di nome Sylvia Likens.

La ragazza crebbe ricca di doti, si perse in una radura incantata e venne inaspettatamente salvata dal fantomatico principe azzurro.

Vorrei tanto scrivere una noiosa favola per bambini ricca di stereotipi, criticare l’educazione infantile e andare avanti così, più polemica che mai.

Ma quando finisce il carattere ironico inizia la tragedia: per coloro che ne sono ignari, questa non è una bella storia.

Invito quelli che rabbrividiscono di fronte alla crudezza degli esseri umani a ricercare un romanzo rosa e andare a vivere in una bolla di sapone; infatti, questa finestra riporta solo il vero e maledettamente freddo volto del male.

La storia di Sylvia è il più atroce fatto di cronaca nera consumato in Indiana. La protagonista era una mia coetanea, aveva appena sedici anni ed era una ragazza normalissima ma poco fortunata.

Leggere le storie di queste vittime lascia sempre l’amaro in bocca e la consapevolezza che nulla è veramente sicuro.

Oggi non parleremo esattamente di femminicidio, perché questa volta a sporcarsi le mani è stato un intero quartiere.

“And I know there’ll be no more

Tears in heaven”

-Eric Clapton

Ma, per risalire alla serie di eventi scioccanti riportati nella macabra vicenda, dobbiamo muoverci con ordine.

Sylvia Likens nacque il 3 gennaio del 1949, da Lester Likens e Betty Grimes, terza di cinque figli. Questi passarono la loro infanzia soprattutto con la nonna, mentre i genitori, dei giostrai, si dedicavano a lavori occasionali. Sylvia non visse la migliore delle infanzie: la famiglia cambiava casa spesso e a un certo punto i genitori si separarono.

Poco tempo dopo la madre venne arrestata per furto e le due figlie minori, Sylvia e la sorella Jenny, affetta da poliomielite, vennero riaffidate al padre. Ma Lester, a causa della sua vita da nomade non riusciva a gestirle e perciò decise di darle in affido ad una sua conoscente, Gertrude Baniszewski, la quale aveva già sette figli a carico, per 20 dollari alla settimana. Lester Likens, come riferì anche al processo, non curiosò sulle condizioni della casa della donna e incoraggiò quest’ultima a “raddrizzare le sue figlie”.

Così, nel 1965, la vita di Sylvia si legò irrimediabilmente ad una sconosciuta, dai lineamenti aspri e i capelli corvini; un legame che purtroppo si concluderà con la morte della povera ed ignara sedicenne.

Ma cosa cela il volto del carnefice appena presentato, Gertrude Baniszewski? Di certo non una vita facile. Nata col nome di Gertrude Nadine Van Fossan, ella assistette alla morte prematura del padre per un attacco di cuore. A 16 anni si ritirò dalla scuola e due anni dopo sposò il vice-sceriffo Stephan Baniszewski, con il quale ebbe cinque figli. Anche se il marito aveva un carattere irascibile, i due rimasero insieme per dieci anni. Dopo il divorzio, a 34 anni, Gertrude convisse col diciottenne Dennis Lee Wright, che abusò di lei in ogni modo, prima di abbandonarla dopo la nascita di un altro figlio.

La donna, descritta dal The Indianapolis Star come una persona “emaciata e smunta, sottopeso e asmatica”, soffriva di depressione e stress. Furono proprio le due ragazze a fare da valvola di sfogo per la sua mente percossa da rabbia repressa e malata di sadismo.

Infatti, se adesso alcuni possono ancora pensare a questa donna con una sorta di compassione, procedendo con la lettura, gli alibi e le scusanti risulteranno ben vani.

“Baby, don’t cry tonight

After the darkness passes by

Baby, don’t cry tonight

You won’t even remember why

I will never let you disappear into the sea”

-Etta James

Il calvario per le sorelle Likens iniziò dopo poco, quando il pagamento dei 20$ arrivò in ritardo e Gertrude cominciò a picchiarle con delle pagaie, per poi mettere Sylvia in severa punizione con l’accusa di aver rubato delle caramelle; fu questo l’inizio di un regolare sistema di abuso minorile.

Paula, una delle figlie di Gertrude, che in quel momento era incinta, picchiò a sua volta Sylvia ed un giorno la prese a calci nei genitali, accusandola ingiustamente di essere incinta. Poi, Gertrude incoraggiò i suoi figli ed alcuni ragazzi del vicinato a picchiare e torturare Sylvia.

La povera ragazza, che ormai non andava più a scuola ed era tenuta prigioniera in casa, subì violenze di ogni genere: sigarette spente sulla pelle, botte mentre era appesa con delle corde al soffitto, scottature con acqua bollente; inoltre la costrinsero a mangiare cose che la fecero vomitare e la obbligarono a togliersi i vestiti. Poi, in almeno due occasioni, le inserirono nella vagina una bottiglia di vetro di Coca-Cola. Anche sua sorella minore Jenny Likens, diventata invalida per via della poliomielite, a forza di percosse e minacce fu costretta a colpirla.

I vicini segnalarono ai servizi sociali che in casa Baniszewski avvenivano cose strane e Gertrude raccontò che Sylvia era scappata via e che lei non sapeva dove fosse. Purtroppo le credettero.

Gertrude non faceva né mangiare né bere Sylvia, costringendola, anzi, a bere la propria urina. Secondo Jenny, la sorella era talmente disidratata da non riuscire nemmeno a produrre lacrime quando piangeva e, negli ultimi tempi, divenne anche incontinente.

Il 22 ottobre 1965, insieme a Richard Hobbs, Gertrude cominciò a incidere sulla pelle dell’addome di Sylvia la frase “Sono una puttana e ne vado fiera”, con un ago arroventato. Inoltre, le fecero anche un marchio a forma di “3” sul petto. Poi, minacciandola, la costrinsero a scrivere una lettera in cui annunciava la propria fuga e dove raccontava di aver subito violenze da dei ragazzi con cui si prostituiva. Gertrude voleva, infatti, abbandonarla in un bosco e farla morire di stenti.

Il 25 ottobre Sylvia, nell’udire i discorsi di Gertrude, tentò la fuga. Riuscì ad arrivare fino alla porta, poi fu picchiata come mai prima e trascinata nel seminterrato, dove Coy Hubbard continuò a picchiarla con un manico di scopa.

Queste ultime botte furono fatali. La sera del 26 ottobre 1965, Stephanie e Richard Hobbs la trovarono morta. L’autopsia avrebbe poi accertato che il decesso era stato causato da un’emorragia cerebrale.

Di fronte al cadavere Gertrude ordinò di chiamare la polizia. Quando i poliziotti arrivarono, Gertrude diede loro la lettera che aveva fatto scrivere a Sylvia per sviare le indagini. Ma Jenny Likens disse loro che, se l’avessero portata via, avrebbe raccontato tutta la verità.

“But there′s one thing I know

Though I’m younger than you

That even Jesus would never

Forgive what you do”

-Bob Dylan

Ciò segna la fine del macabro racconto e l’inizio di un’agghiacciante ingiustizia: infatti, nonostante l’arresto di Gertrude, i suoi tre figli più grandi, Coy Hubbard, Richard Hobbs e cinque ragazzini che si trovavano in casa in quel momento, le condanne furono davvero scioccanti.

Gertrude restò in carcere fino al 1985 e, nonostante l’ergastolo, uscì per buona condotta dopo meno di vent’anni. Stephanie fu prosciolta per aver testimoniato contro la madre, insieme a una delle sorelle più piccole. Paula, che aveva anche tentato di evadere, ottenne la libertà vigilata nel 1972. Richard Hobbs, Coy Hubbard e il terzo figlio di Gertrude, John, furono condannati al riformatorio da 2 a 21 anni, ma uscirono già nel 1968. Le accuse contro gli altri ragazzi coinvolti furono ritirate.

‘’Vedo una luce; speranza. Sento una brezza; forza. Sento una canzone; sollievo. Lasciateli passare perché sono i benvenuti ‘’ Ivan Rogers

Questa è la storia delle sofferenze patite da Sylvia Likens e del modo in cui cercarono di strapparle quel meraviglioso sorriso. È la visione di un male che sopravvive al tempo, che non muta e che bisogna sempre ricordare.

Il popolo di Indianapolis non ha dimenticato Sylvia. Un monumento in suo onore è stato eretto proprio con la scritta sopracitata. Nessuno scorderà che un giorno, tempo fa, una bellissima ragazza camminava tra le giostre e si chiamava Sylvia.

Chiara Ricciardi